P come Piega

Noi siamo come un foglio di carta e possiamo diventare quello che vogliamo essere: è stata questa consapevolezza a farmi capire che la strada che avevo scelto era solo un ripiego, quando in verità il mio progetto di vita era orientato altrove». Riflessione ed entusiasmo, coraggio e strategia, follia e manualità: sono le molteplici sfumature che disegnano la svolta di Alessandro Ripepi, messinese di 35 anni, che dopo una laurea a pieni voti in Giurisprudenza e 8 anni di lavoro come avvocato penalista, ha mollato tutto per dare un’altra piega alla sua quotidianità. Trasformando una passione in una innovativa e artigianale professione: il creatore di origami.
«Da bambino piegavo qualsiasi foglio, anche la carta per le caramelle. Quando mi hanno regalato il libro Origami Facile del maestro Kunihiko Kasahara ho finalmente ho scoperto questa arte che ignoravo totalmente. Tramite corsi, manuali, video su YouTube ho poi raffinato la tecnica, ottenendo ottimi risultati. Tali da poter tentare il grande salto verso il mercato». A Napoli nasce così «Origami Oh», laboratorio virtuale di origami da dove Alessandro sfrutta le sue conoscenze di marketing per vendere le sue opere e la sua abilità. Dal volantinaggio creativo, con le pubblicità piegate a forma di «gru» per rendere appetibile il materiale pubblicitario distribuito in strada, agli allestimenti per matrimoni e convention, passando per la decorazione di vetrine, gli spettacoli per bambini e la creazione di gioielli o regali per Natale.
E non solo, perché l’obiettivo del penalista pentito è ben più ambiziosa. «L’origami è uno strumento di formazione e cambiamento straordinario, economico e alla portata di tutti. I miei percorsi s’intitolano “Quale piega vuoi dare ai tuoi eventi?”, e accompagno le persone, di piega in piega, a porsi domande sulla propria vita e a meditare sui sogni, le relazioni e le possibilità di sentirsi realizzati. In un mondo ipertecnologizzato provate a fare un origami senza carta? E’ impossibile. E’ un arte essenziale, e che racchiude tutto: offro agli adulti la possibilità di risvegliare il bambino che c’è dentro di loro, ma che è stato sepolto vivo”. (Federico Taddia, La stampa 7/12)

La Piazza dei Mestieri

Dieci anni fa Torino viveva un dramma: quello della fine della Fiat così come l’aveva conosciuta per 100 anni. I bilanci continuavano a fare acqua, l’Avvocato era morto da un anno e, proprio nel 2004, moriva anche il fratello Umberto. La città auto-centrica stava per finire e il rischio di una povertà diffusa sembrava inevitabile. Per rispondere a queste paure, proprio quell’anno, è nata quella che è una delle più grandi e note opere di carità della città. Si chiama “Piazza dei Mestieri” e in 10 anni ha aiutato a non cadere nel baratro dell’emarginazione più di 1500 ragazzi a rischio grazie al lavoro gratuito di 200 persone. Il modello della Piazza è semplice e, visti i risultati, efficace: si tratta di un luogo che riprende la fisionomia delle piazze medievali dove studenti e docenti, ospiti ed educatori vivono insieme anche intere giornate e dove l’insegnamento di un mestiere avviene, oltre che nelle aule e attraverso le prove pratiche, anche per via quasi “osmotica” tra diversi saperi e le diverse persone.
Così, all’interno dello stesso luogo, si trova sia la “casa dei compiti”, dove ragazzi che hanno difficoltà a frequentare le scuole dell’obbligo possono essere aiutati da docenti volontari, ma anche un istituto tecnico superiore, sia una scuola dove ai ragazzi viene insegnato a fare la birra, che una scuola per diventare camerieri e perfino una sorta di job center che segue nel loro percorso i ragazzi fino a due anni dopo l’uscita dalla Piazza. I risultati di questi 10 anni di impegno sono straordinari: circa il 90% dei 1500 ragazzi che hanno frequentato la Piazza dei Mestieri ha trovato una propria strada nel mondo del lavoro, al punto che Dario Odifreddi, presidente dell’omonima Fondazione, ha aperto un’altra sede della Piazza a Catania gemellandosi anche con un’esperienza analoga a Belo Horizonte, in Brasile.
Per festeggiare il decennale la Piazza ha organizzato un’intera settimana di eventi dal 28 settembre al 4 ottobre che vedrà la partecipazione di una lunga serie di “amici” della Piazza: da Giorgio Chiellini a Max Pisu fino a Santo Versace. (Panorama.it, 23/9; la notizia ha avuto eco sul TG3Piemonte e su La voce del Popolo)

Sud è buono

C’è un’umanità da Roma in giù che opera, innova, si batte, crea lavoro, ha successo, diffonde sobrietà, scambio, restituzione, ripensa valori, crea economia laddove non c’era facendo tesoro di peculiarità ambientali locali. Di queste idee e storie positive si è riempito il taccuino del cronista coordinatore, venerdì 26 settembre, del convegno “Sviluppo è ambiente”, al Castello Sforzesco di Milano: uno degli incontri, mostre, performance, laboratori con cui la Fondazione con il Sud, presieduta da otto anni da Carlo Borgomeo, in partenariato con la Fondazione Cariplo, hanno voluto portare nella città che si accinge a ospitare l’Expo, in un clima di festa della società civile, le buone pratiche e modelli di sviluppo alternativi a quelli praticati storicamente nel Mezzogiorno. Dai racconti e dalle testimonianze di chi sta sperimentando queste iniziative (500 sostenute finora dalla Fondazione: http://www.conilsud.it), è emersa una nuova linea cambiamento di comunità ed economia verso un “Sud sostenibile”.
S come stop al consumo dei suoli che arresti la sottrazione di opportunità all’agricoltura e che faccia crescere quelle tipicità alimentari che stanno avendo successo nei presidi di Slow Food: come quelli evocati da Lorenzo Berlendis (n. 2 di Slow Food), il pomodoro Fiaschetto di Torre Guaceto (riserva naturale nel Salento), il carciofo bianco di Pertosa nel Cilento (Salerno) o il pistacchio di Bronte (Parco dell’Etna, Catania). Ma anche S come Sistema: in molti stanno scalfendo quella granitica consuetudine dei meridionali a non mettersi insieme (già mio nonno, mugnaio nel Tavoliere pugliese, mi avvertiva:
“Noi siamo come i fagioli, ci piace lavorare da soli”). Per una piccola azienda è sempre più difficile essere competitiva in uno scenario globalizzato. Benvenute, perciò, le azioni di sistema che creano sinergie e “fanno rete” in un’ottica di cooperazione locale e nazionale per il “bene comune”.
U come Unione Europea: basta con i fondi mandati indietro a Bruxelles, ha urlato Angelo Consoli, direttore dell’Ufficio europeo di Jeremy Rifkin, il guru della terza rivoluzione che sta trasformando l’energia, l’economia e il mondo con la produzione di massa che sfocerà nella gandhiana produzione delle masse, imperniata non più su processi industriali e agricoli molto dissipativi ma su nuove tecnologie, simboleggiate dalle stampanti 3D, e su attivismo, volontariato e terzo settore in grande crescita: nei paesi europei passerà dall’attuale 10% di occupazione al 60% entro il 2020-2025, scenario della John Hopkins University).
D come Digital. Come la sorprendente Città del cibo, arte estratta da specialità gastronomiche pugliesi, che ha fatto da scenografia prima allo stilista Kean Etro e poi al convegno, opera dell’artista digitale Giacomo Giannella, fondatore con Giuliana Geronimo della startup Streamcolors. L’Italia e il Sud sono indietro sulla strada della digitalizzazione. Ho ricordato che nel dopoguerra nel Tavoliere pugliese la riforma agraria tardava a decollare perché molti braccianti, oltre che nullatenenti, erano analfabeti, al punto tale da non saper firmare il contratto di assegnazione della terra. Peppino Di Vittorio chiamò lo storico Gaetano Salvemini, rientrato dall’esilio americano, e insieme vararono a Cerignola la “scuola della firma”. Così i braccianti impararono a scrivere il loro nome e cognome e la riforma dette i suoi frutti anche nel “granaio d’Italia”. Chi sa firmare su Internet sta avendo successo commerciale in quanto piazza i suoi prodotti nei mercati del mondo. Per gli altri, vale la pena di accogliere l’invito ad aggiornarsi e a iscriversi a una ideale scuola delle firma digitale.
E’ come invito agli intellettuali ad attenersi al presente e a smettere di avere solo lo sguardo rivolto al passato. Ma anche come Emulazione, come invito a copiare e trasmettere il sapere delle soluzioni virtuose trovate da altri.
B come buono e bello, perché la bellezza ha anche valore economico. E anche pulito e giusto e…
U come utile. Tutto ciò che non corrisponde a questa cinquina virtuosa, seppelliamolo nel silenzio.
O come ottimismo (il “genius loci” evocato da Orazio di Venosa due millenni fa era favorevole agli ottimisti e ai sereni, contrario ai tetri e agli avari) e come orgoglio. Ai tempi di Federico II di Svevia, “stupor mundi”, la Puglia e l’intero Meridione si collocavano al crocevia della civiltà europea. Gli uomini di quelle terre che ieri stupirono Federico possano trovare nel loro passato una nuova molla per costruire il loro domani di cittadini degli Stati Uniti d’Europa. E i luoghi di piacere del primo uomo di Stato di respiro europeo possano costituire motivo di attrazione per i numerosi europei avidi di natura e di cultura.
N come Nuovi mondi. Sono quelli come “Io Cresco” a Napoli, che recuperano di tutto (il loro slogan: “L’unica cosa che non ricicliamo sono i soldi”). Rifiuti , abiti, materiali high tech, cellulari, oli vegetali, stoccaggi e distribuzione di alimenti donati, sistemazione aree verdi. “La sfida è coniugare economia, solidarietà e rispetto per l’ambiente: e la stiamo vincendo”, ha raccontato Antonio Capece, responsabile del progetto (“il più sostanzioso finanziato dalla Fondazione con il Sud”, a dire del presidente Carlo Borgomeo). “Io Cresco” sta cambiando volto alla VI Municipalità di Napoli, coinvolgendo 5.00 giovani, 40 istituti scolastici. Fatturato anno 2011: 200 mila euro, nel 2013 saliti a 900 mila, con i tre dipendenti iniziali arrivati ai 20 di oggi. E una parte del fatturato destinato “a mitigare la povertà alimentare”: in parole più chiare, a procurare cibo per i nuovi poveri di Napoli. O come Ortofrù, una catena ortofrutticola di 11 negozi (tre a Salerno, otto in Basilicata) per inserire al lavoro 21 disabili: una filiera cortissima e risparmiosa (“Ortofrù, costa di meno e vale di più”) che, parola dell’ideatore Michele Finizio, permette di finanziare servizi di welfare nelle comunità dei mercati.
O infine, e sta per zero. Zero consumo di suoli. Ma anche tendere a emissioni zero con la decarbonizzazione dell’agricoltura, a consumi alimentari a chilometro zero, e a rifiuti zero.
L’acronimo (ve ne siete accorti) è SUD E’ BUONO. Un pomeriggio milanese ha ribadito l’importanza della crescita del capitale umano in una parte dell’Italia che, più del resto del Paese, si trova ad affrontare problemi più gravi. “Per la stampa è difficile rappresentare in modo efficace le tante realtà che nel Sud danno il segno di una crescente volontà dei soggetti locali, soprattutto giovani, di mettersi in gioco”, ha sottolineato il presidente Borgomeo dopo il confronto con i direttori di importanti testate nazionali. Su Buonenotizie del Corriere.it il SUD BUONO può contare. (Salvatore Giannella, 30/9)

La nuova vita dei pneumatici rifiutati

In diverse regioni del Libano bruciare gli pneumatici è ormai parte integrante della cultura locale. Gesto di rabbia e di protesta durante le manifestazioni e gli scioperi, è anche considerato l’unica soluzione possibile per eliminare le grandi quantità di gomme usate che ingombrano il territorio. Incenerire i copertoni costituisce però un crimine dal punto di vista ambientale, a causa del CO2 immesso nell’atmosfera al momento della combustione.
Alcuni comuni libanesi scelgono allora di abbandonarli tra le montagne di rifiuti delle discariche, incuranti del fatto che i componenti della gomma siano tra i più resistenti agli agenti esterni e che il tempo di decomposizione di uno pneumatico sia nell’ordine delle centinaia di anni. Il Libano non è l’unico Paese a vivere questo problema. La questione è globale e particolarmente acuta nei Paesi in via di sviluppo, dove lo smaltimento sicuro delle gomme usate è una pratica assai poco diffusa.
Ma nella cittadina libanese di Toula, nel Sud del Libano, è nato un progetto che lascia sperare. Si chiama Al-Oula ed è un impianto di riciclaggio di pneumatici usati fondato e gestito da tre giovani imprenditori pieni di creatività e senso di responsabilità ambientale: Ali Issa, Oula Issa e Ahmad Shamseddine.
Al-Oula è nato nel 2011, quando i tre imprenditori hanno deciso di applicare agli pneumatici il know-how familiare nella trasformazione della gomma in articoli di vario genere rivenduti poi ai negozi locali, trovando così una soluzione di smaltimento alternativa all’accumulo e alla combustione: gli pneumatici vengono triturati e trasformati in polvere, quindi in pannelli per la pavimentazione di viali, aree gioco, palestre e scuole materne. Dopo un primo anno di rodaggio, in cui la start-up si è avvalsa dei fondi del programma Kafalat per importare i macchinari necessari al riciclaggio e finanziare il proprio progetto, Al-Oula opera ormai con successo senza alcuna sovvenzione statale.
L’impianto risponde a due esigenze essenziali in Libano: libera gommisti e comuni dall’ingombro degli pneumatici danneggiati e fornisce pavimentazioni antitrauma a diverse strutture, riducendo il fabbisogno di importazione di questi materiali dalla Cina. E non è tutto. Grazie a un livello di qualità e di prezzo che la rende concorrenziale rispetto ai produttori cinesi, l’azienda ha iniziato a esportare i propri pannelli nei Paesi limitrofi, principalmente in Giordania.
Ali Issa ci ha spiegato che il progetto è nato dal desiderio di risolvere il problema della combustione degli pneumatici ed eliminare le sue ripercussioni ambientali. Al-Oula è un’azienda unica nel suo genere in Libano e nei Paesi circostanti. Prima di lanciare il progetto, i tre soci hanno studiato la domanda di pannelli antitrauma con garanzia a dieci anni, scoprendo che questo tipo di pavimentazione veniva importata a prezzi molto più alti rispetto a quelli che Al-Oula riesce ad offrire oggi ai suoi clienti.
Una volta acquisite le macchine trituratrici, gli imprenditori hanno contattato vari comuni, tra cui quello di Saida, nei pressi di Toula, per assicurare all’impianto l’approvvigionamento di pneumatici usati. Oggi Al-Oula è in grado di triturare 200 pneumatici in cinque ore.
La polvere di gomma viene venduta all’ingrosso senza essere processata oppure impiegata per la realizzazione di pannelli compressi di varie forme e dimensioni, usati per la pavimentazione di superfici di diverso genere. Gli ordini provenienti da numerose regioni del Libano, nonché dai Paesi limitrofi, dimostrano un interesse elevato nei confronti di questi pannelli ecologici, resistenti ad agenti atmosferici quali il calore e la pioggia e sicuri per chi vi cammina, dunque particolarmente adatti alla pavimentazione di ambienti destinati ai bambini.
Ali Issa ha accennato alla riduzione del numero di pneumatici provenienti dai comuni, in particolare da Saida. Una situazione problematica per l’azienda, ma positiva per l’ambiente, poiché conferma che il problema degli pneumatici in esubero dispone effettivamente di una soluzione a lungo termine. Per far fronte alla penuria di gomma ed evitare la dipendenza da una fonte di approvvigionamento affievolita, l’imprenditore ha avuto l’idea di raccogliere pneumatici in altre regioni del Paese, ottenendo così il duplice vantaggio di espandere il business di Al-Oula e ridurre l’onere dello smaltimento delle gomme. Appositi veicoli aziendali percorrono ora il Paese e riversano nell’impianto di Toula grandi quantità di pneumatici pronti ad essere polverizzati e reimpiegati.
L’impianto di Al-Oula è ormai pienamente autonomo e cresce grazie all’impegno dei suoi soci e all’aiuto di dipendenti locali che hanno trovato nelle gomme una nuova fonte di sostentamento e una via d’uscita al problema della disoccupazione e della migrazione verso la capitale. Malgrado il suo impegno a vari livelli, l’azienda non beneficia tuttavia di alcun sostegno pubblico, fatto salvo l’appoggio morale, che non si rivela però concretamente utile per trasformare il sito in una fabbrica-modello.
Gli ideatori del progetto non si lasciano scoraggiare e promettono ulteriori sviluppi per Al-Oula. In proposito, Issa ha parlato di investimenti in corso per la realizzazione di un macchinario in grado di produrre pannelli di grandi dimensioni, che verrebbe ad affiancare l’attuale dotazione di macchinari per pannelli di taglia piccola e media. Produrne di più grandi permetterebbe all’azienda di operare su progetti di maggiori dimensioni e fornire pavimenti antitrauma per la copertura di superfici più ampie. Durante la nostra visita all’impianto, abbiamo constatato che i lavori per la costruzione del macchinario erano già in corso, a riprova della capacità della nuova generazione libanese di fare la differenza anche con disponibilità finanziarie limitate.
Gli imprenditori stanno lavorando a una nuova idea: riutilizzare i rivestimenti in lino presenti all’interno degli pneumatici, attualmente accantonati prima della triturazione. I tre soci non intendono infatti gettar via la grande quantità di lino accumulatasi sul sito durante tutto il periodo di attività e stanno elaborando un nuovo sistema di riciclaggio per trasformare il tessuto in pannelli destinati alla decorazione. Il progetto è ancora in fase di studio, ma si fonda sull’assunto – ormai appurato – che ogni componente può essere riciclato senza danni per l’ambiente. (veronique abou ghazaleh, La Stampa 20/9)

Cooperativa di comunità, per salvarsi dalla crisi

Cooperare per cambiare”: all’insegna di questo slogan strategico un piccolo borgo dell’Appennino reggiano, Succiso di Ramiseto, si è salvato dallo spopolamento e dai conseguenti disagi. È stato messo a punto un modello di “cooperativa di comunità”, al quale possono guardare con curiosa fiducia quel 65% degli italiani che vive nei piccoli centri: un modello che si sta imponendo anche all’attenzione di economisti vicini (come Stefano Zamagni, dell’ateneo di Bologna) e lontanissimi: in Giappone è da poco uscito un libro di Naonori Tsuda, docente di economia all’università St. Andrews di Osaka, sulla cooperazione nell’Appennino reggiano (“Cooperative economy in sociale change, a solidarity system”). Il professor Tsuda si occupa da anni di ricerca nel settore del no-profit e più volte si è affacciato, con la sua assistente Minae Okada, tra le case di questo piccolo borgo emiliano a quota mille metri sul livello del mare (65 abitanti d’inverno, 500 d’estate, negli anni Cinquanta ci vivevano 1.000 persone e 4.000 pecore) per studiare una formula ideale per le zone disagiate delle nostre montagne e non solo.
Eravamo nove amici al bar”, mi racconta Dario Torri, geometra, presidente della cooperativa Valle dei Cavalieri, nome poetico che affonda nella storia di queste terre un tempo dominate da Matilde di Canossa. “In nove, nel 1991, puntammo su una scommessa: creare una cooperativa di comunità (il nome lo dobbiamo all’attuale ministro del Lavoro Giuliano Poletti), bipartisan, associata sia alla rossa Legacoop che alla bianca Confcooperative per ridurre disagi e crisi. Tutti volontari, ciascuno di noi aveva il suo mestiere. Oggi siamo in 33. Abbiamo cominciato aprendo un bar, poi è arrivato il negozio di alimentari, nel ’94 il ristorante dall’ottima cucina locale, nel ’98 abbiamo iniziato, grazie all’allevamento di ovini, la produzione di pecorino, 60 quintali l’anno, e di ricotta”.
Il pastore-casaro è Joan Dobrica, viene dalla Romania con la moglie Piera, hanno un bimbo, l’unico di Succiso: Resvan, di tre anni. Il pizzaiolo Alvaro fa anche l’autista di scuolabus e garantisce pure il trasporto di provviste e delle medicine, visto che la farmacia più vicina è a venti chilometri. E lui stesso, Dario Torri, geometra ed ex presidente della Pro Loco, fa anche qualcosa di più: misura la pressione e fa iniezioni, merito della pratica nel Soccorso alpino (una necessità, visto che il dottore arriva una volta la settimana, per le emergenze qui si va in elicottero). Il suo quasi omonimo Oreste Torri fa il consulente assicurativo e lavora a Reggio, ma la residenza l’ha mantenuta orgogliosamente a Succiso.
Nel 2003 l’agriturismo è diventato anche albergo, con venti posti letto. È stata creata una sala convegni, un campo per le attività sportive in sintetico, un gruppo per la manutenzione del territorio e la gestione del centro visita del parco dell’Appennino tosco-emiliano, attività quest’ultima che ha apportato un importante introito economico. L’ultima sfida? Un piccolo centro benessere con bagno turco e idromassaggio. Così sono stati garantiti servizi per la comunità locale e ci si è aperti al turismo scolastico e familiare con il binomio neve e natura, seducente per chi vuole scoprire con passeggiate e guide le meraviglie sconosciute dell’Appennino.
Le cooperativa di comunità, previste nella riforma del terzo settore (legge che dovrebbe passare nell’autunno prossimo), si basano sull’associazione volontaria da parte delle persone e sulla proprietà in comune, in modo da sopperire alla mancanza di servizi e a creare percorsi economici virtuosi che creano occupazione all’interno della comunità stessa.
“Sono innegabili gli effetti positivi sulla qualità della vita dei cittadini, che rafforzano i loro legami sociali trovando soluzioni efficaci a problemi comuni e risparmiando: per esempio, per comprare molti prodotti riusciamo a evitare due-tre passaggi nella filiera di acquisti, arrivando a risparmiare mediamente il 20% sulla spesa”, precisa Torri.
Tra economia e civiltà, in questo paese kibbutz si intravvede il futuro di un Appennino vivo. (Salvatore Giannella, Corriere della sera, 13/8)

“Refugée scArt”, rifugiati che con l’arte del riciclo riescono a mantenersi e a condividere

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I prodotti di dodici rifugiati politici africani in vendita a Officine Creative di Roma, a Borgo Pio, in via del Falco 12. «Refugee Scart» mostra le opere di creativo artigianato tratte da materiali da rifiuto che trattati si trasformano come per magia in bicchieri raffinati, borse, segnalibri, grembiuli, collane variopinte e allegre. E’ l’attività che nata come progetto di Spiral Foundation Onlus nel 2011 sotto allora il patrocinio dell’alto commissariato per i rifugiati in cooperazione col Centro Astalli, «Laboratorio 53» e «Programma Integra» si è trasformata ormai in un lavoro permanente per un gruppo di rifugiati che hanno in uso un laboratorio artigianale messo a disposizione dell’Ama in Piazza Caduti della Montagnola.
Seku, della Guinea Conakry, capo della struttura, è un africano arrivato in Italia nel 2011. Ora mostra con orgoglio ciò che si può ottenere da una comune bottiglia di plastica verde d’acqua minerale: un elegante bicchiere smontabile che riutilizza la parte superiore della bottiglia e il tappo per trasformarsi in un bicchiere. Con altri rifugiati come il conterraneo Buba il laboratorio sforna una serie di oggetti molto colorati e attraenti che mai e poi mai si direbbero derivati da plastica da riciclaggio. Jean Baptiste, sbarcato a Lampedusa nel 2011 e proveniente dal Burkina Faso, mostra con orgoglio alcuni prodotti che col loro ricavato consentono ai rifugiati di inviare in dono (dall’agosto scorso) 200-300 al mese al Poliambulatorio Mobile di Emergency a Castel Volturno. Inviati finora circa duemila euro.
Mariachia Arese, animatrice di Spiral Foundation, spiega: «Questo progetto cerca di mettere i rifugiati nella condizione di essere una risorsa positiva nel contribuire alla tutela dell’ambiente attraverso il riciclo dei materiali di scarto. In questo modo i rifugiati escono da una condizione di isolamento e di anonimato, acquisendo un senso di gruppo e di ppartenenza che incoraggiano il percorso di integrazione». (Paolo Brogi, Corriere.it, 2/4; notizia ripresa dal servizio del TG3 di oggi, 5/6)

Ortomania: recupero terreni coltivabili abbandonati per reinventarsi un lavoro

Un approfondimento del post del 26 marzo 2014, questa volta tratto dal settimanale diocesano di Torino.

Dare risposte positive alla situazione di mancanza di lavoro. Questo l’obiettivo del progetto “Ortomania”, che intende recuperare alcuni terreni abbandonati con l’arrivo dell’industrializzazione, nel corso del secolo scorso, e diventati incolti. Valorizzare le risorse agricole e riportarvi la coltivazione ad orto attraverso colture biologiche o d’altro tipo, sfruttando la presenza di un canale d’acqua per l’irrigazione. Queste le riflessioni che accompagnano da oltre un anno gli attori di un progetto che vuole valorizzare le risorse agricole e umane. Protagonisti sono le realtà parrocchiali e associative che ruotano intorno alla Caritas Zonale di Cirié: la cooperativa sociale “Casa di Nazareth” assumerà in forma di borsa-lavoro due persone disoccupate e motivate ad apprendere i segreti del mestiere del coltivatore e le parrocchia di San Carlo e Robassomero, con la onlus Casa giorgina da cui sono partiti nei mesi passati alcuni corsi volti all’etica del risparmio e del riuso, volontari e un coordinatore esperto di orticultura.
“Nella fase sperimentale dei mesi scorsi – spiegano il diacono Carlo Mazzucchelli e il parroco di San Carlo don Paolo Burdino – si sono rinvenuti circa 7000 metri quadrati di terreno coltivabile e irrigabile in due siti diversi, entrambi nel Comune di San Carlo. I terreni sono stati concessi da privati a uso gratuito“.
Beneficenza, volontariato e gratuità sono del resto le coordinate di questo progetto, finanziato anche a partire da due raccolte di indumenti e pellami usati che hanno coinvolto in modo capillare comuni e parrocchie del Ciriacese e Valli di Lanzo a ottobre e ad aprile, consentendo di mettere da parte un gruzzolo di 2500 euro che ora saranno utilizzate e finanziare “Ortomania”. Il progetto sarà inoltre sostenuto da un contributo di 4000 euro da parte dell’Associazione “Lions Clus Valli di Lanzo”. I costi previsti, di quasi 9000 euro, includerebbero, al momento, 4800 euro per le due borse lavoro della durata di sei mesi, oltre a spese per materiali, recinzione campo, acquisto cisterna per acqua e magazzino in lamiera per attrezzi. (Tiziana Macario, La voce del popolo)

Famigerate FF.SS. ovvero…

Una buona notizia che sa un po’ di “bicchiere mezzo pieno”… ma è vera. Ci saranno responsabilità specifiche, ma c’è anche una buona dose di buon senso e di lavoro di molti. Grazie…

Caro Direttore, a pochi mesi dalla frana di Andora, un’altra odissea ha colpito i viaggiatori che utilizzano i treni in quella sfortunata tratta. Dirà lei: dov’è la buona notizia? Un po’ di pazienza. Mi riferisco all’intercity n. 518 Roma-Ventimiglia, che nella notte di venerdì 9 maggio e l’alba del giorno seguente è giunto a destinazione con 4 ore e più di ritardo. Da quello che si è potuto capire, nella concitazione degli eventi, pare essersi trattato di un guasto elettrico sulla linea ferroviaria in questione.
Fatto sta che, giunti alla stazione di Albenga, i passeggeri sono stati fatti scendere e stanziati al binario 1, in attesa di un altro intercity straordinario trainato da una locomotrice a motore diesel.
Il nuovo treno, a velocità ridotta (lumaca), ha portato a termine il viaggio, soffermandosi anche in stazioni non previste, come Imperia Oneglia e Taggia Arma, per permettere di salire anche ai passeggeri degli altri treni regionali e non, a loro volta bloccati dal guasto citato.
Nel frattempo, ad Andora, i tecnici Fs avevano provveduto a rimettere una locomotrice elettrica.
Ed ecco la buona notizia: concludo questa breve ricostruzione con un messaggio positivo: nonostante il forte disagio i numerosi passeggeri hanno mantenuto la calma, solidarizzando con l’incolpevole personale Fs di bordo. E nonostante le gravi ed evidenti lacune dei nostri treni, i viaggiatori hanno raggiunto le loro rispettive destinazioni grazie anche ai tecnici delle Fs che nella notte hanno effettuato cambi di motrici e sostituzione di interi treni. Stefano Masino, Asti. La Stampa 20/5).

Giovani italiani dalle buone idee

«Lascia che la tua idea prenda il volo». E’ questo il senso della missione realizzata dall’associazione ItaliaCamp a Manhattan. Un’iniziativa per sostenere l’innovazione e la creatività: al New York Stock Exchange sono arrivate 14 start-up italiane per un incontro con la comunità degli investitori americani. Obiettivo: colmare il gap tra inventiva, realizzazione e business.
L’iniziativa ha visto la partecipazione di società ed istituzioni e di oltre 70 università italiane e straniere. In scena il made in Italy dei giovani, che ha conquistato l’interesse di Wall Street, all’esordio nella piazza finanziaria più importante del mondo. I progetti d’impresa, ad alto potenziale di sviluppo – legati principalmente ai settori telecomunicazioni, Internet, «life science» e «green» – si sono così presentati agli investitori e ai «venture capitalist» internazionali per attrarre finanziamenti e coinvolgere partner commerciali.
La parte principale si è svolta nella «dining room» di Wall Street attraverso una sessione plenaria che ha dato la possibilità ad ogni start-up di valorizzarsi con una breve presentazione, alternandosi agli interventi di autorevoli commentatori su innovazione, finanza e internazionalizzazione.
«Il mercato italiano continua a rappresentare per gli investitori americani un riferimento primario in Europa, principalmente su tutte le opportunità che si definiscono di “made and brain in Italy”», ha spiegato James Pallotta, presidente e managing director del Raptor Group. Come altri investitori a stelle e strisce ha sottolineato l’interesse crescente per nuove occasioni di business. Tra i settori più promettenti, i social media, l’«entertainment» e il turismo. È su questi che – tutti concordano – l’Italia ha ancora ampi margini di crescita, come dimostrano le tre storie che raccontiamo in questa pagina.
Anna-Victoria Anderson, ventenne californiana, è studentessa del master Mba alla Luisss a Roma e imprenditrice di social network. Durante gli studi in Cina ha sentito la necessità di iniziare a mangiare sano e fare attività fisica. Per auto-motivarsi ha creato un account Instagram, condividendo foto sul fitness e la nutrizione e ha accumulato talmente tanti «followers» da essere contattata da inserzionisti pubblicitari che volevano essere presenti nella sua pagina. Un’iniziativa di successo che ha raccolto 633 mila «followers», per una media di 80 mila ogni mese, che l’ha portata a scrivere un eBook, «Four weeks to fit» di cui ha venduto 13 mila copie in 9 settimane, tramite lo stesso social network. Ora punta a far tradurre il libro in 4 lingue (cinese, spagnolo, italiao e tedesco) e per il prossimo anno stima un profitto di 700 mila dollari.
«Le Cicogne» è una startup che collega genitori in cerca di babysitter per i figli a ragazzi e ragazze disponibili ad un lavoro saltuario. Un progetto ideato da Giulia Gazzelloni, laureata Luiss, insieme con altre due giovani imprenditrici, fresche di studi. Ora il team de «Le Cicogne» è composto da una decina di ragazzi, tra programmatori, grafici ed esperti di marketing. «L’obiettivo – dice Giulia – è quello di crescere a livello nazionale e internazionale, creando nuove sedi e reti di contatti in diverse città d’Italia e non solo». I servizi che i giovani iscritti al portale offrono sono baby sitting e baby&teen taxi (l’accompagnamento del bambino a scuola), fino alle varie attività extra-scolastiche. E ancora baby&been tutoring, un servizio di aiuto per i compiti per i più piccoli oppure ripetizioni, oltre a iniziative di animazione e organizzazione di feste per bambini.
Giacomo Putignano, laureato in General Management alla Luiss, ha creato l’app WalletSaver, che confronta i piani tariffari telefonici attraverso un’analisi dei dati di consumo, la durata delle chiamate, l’operatore dei numeri, i messaggi e il consumo di Internet. Il tutto estrapolato dallo smartphone. Inoltre sta per essere messa a punto una nuova funzione che permette di analizzare la qualità della copertura del segnale ad ogni chiamata in modo da suggerire la migliore tariffa, ma anche l’operatore che offre la migliore copertura. La start-up ha già convinto il suo primo investitore appena due mesi dopo la nascita. «Abbiamo un target di 20 mila download e puntiamo anche al settore dell’energia elettrica. La nostra filosofia, che si riflette nel nome WalletSaver, è diventare uno strumento di comparazione delle spese quotidiane». Prossimo obiettivo? Russia e Cina. (Francesco Semprini, La Stampa 10/3)

Orto parrocchiale

Da nipote e pronipote di giardinieri, mi appassiono a questa iniziativa, che mi ricorda anche da vicino il sogno di F. Albert della Colonia Agricola… ecco forse oggi sarebbe più importante di una scuola media… o no?

Un orto parrocchiale per dare una mano alle necessità delle famiglie con problemi economici. È l’iniziativa del gruppo Caritas della comunità di San Bartolomeo Apostolo che ha dissodato ed adibito ad orto un terreno di circa mille metri quadri annesso alla chiesa, alle pendici della collina di Rivoli, proprio alle spalle del celebre Castello, nel Torinese.
Gli ortaggi coltivati e raccolti da due anni vengono distribuiti alle famiglie in difficoltà, circa 50, seguite dai volontari. «Il nostro obiettivo – spiega il parroco don Angiolino Cobelli, a cui con altri 3 confratelli sono affidate le cure pastorali delle parrocchie del centro città – non è solo quello di produrre verdure. Con quest’idea si vuole coinvolgere chi ha bisogno di aiuto, facendolo sentire utile attraverso il lavoro pratico, in modo che non si senta assistito, ma partecipe in qualche misura del proprio sostentamento. Inoltre l’orto è un mezzo anche per impegnare qualche adulto rimasto senza lavoro in modo proficuo e a servizio degli altri.
Sono molte le persone che in vari modi appoggiano questa attività: una signora ad esempio ogni mese devolve alla parrocchia una cifra per coprire qualche ora di lavoro nell’orto e, recentemente, un imprenditore della zona offre mille euro al mese per pagare lo stipendio di un parrocchiano che era disoccupato. Questa persona lavora nell’orto, nella manutenzione della parrocchia e, in collaborazione con il comitato di quartiere, cura anche i giardini della zona».
Anche don Cobelli quando le incombenze parrocchiali glielo consentono indossa tuta, scarpe da contadino e imbraccia vanga e zappa: sì perché nell’orto di San Bartolomeo non si usano utensili meccanizzati ma i tradizionali mezzi di coltivazione, più impegnativi, ma che rendono meglio il valore anche simbolico del sudore della fronte con cui ci si guadagna da vivere. Alla cura degli ortaggi si alternano i volontari e, per ora, due persone assistite dalla Caritas che usufruiscono dei frutti della terra. Ma tutti sono fiduciosi che l’iniziativa prenda piede ed un maggior numero di persone sia sensibilizzato a prestare braccia alla coltivazione di cavoli, patate e ortaggi vari a seconda della stagione, tutti rigorosamente biologici.
E così man mano che si viene a conoscenza dell’orto di San Bartolomeo, i parrocchiani si rendono disponibili a fare qualcosa per promuovere la coltivazione: c’è chi ha un vivaio e regala al parroco piantine e sementi, mentre a fornire il letame ci pensa un parrocchiano agricoltore. Quando si sono raccolte le prime patate un’altra parrocchiana ne ha acquistate una cassetta intera pagandole a peso d’oro tanto che con il ricavato la Caritas ha acquistato ben 40 litri di latte… I prodotti dell’orto vanno ad integrare le due distribuzioni mensili di pacchi viveri a cura della Caritas parrocchiale e forniti dal Banco alimentare, nonché quella settimanale di pane, messo a disposizione da un vicino ipermercato. Un’iniziativa semplice, conclude il parroco ma che ci permette di dare «la canna da pesca e anche il pesce». (Marina Lomunno da Avvenire del 9 gennaio 2014)