Nel nome di Federico

Caro Federico,
che sei entrato in questa vita qualche giorno fa… auguri vivissimi per la tua grande avventura, frutto dell’amore e della fede di mamma e papà.
E’ bello saperti tra noi, conferma di una Vita che vuole continuare a essere, e a riempire di frutti rigogliosi e forse eterni chi viene al mondo.
Tutti, a partire dai tuoi genitori, vorrebbero per te un futuro splendente, o almeno sereno; e sono sicuro che tanti opereranno perché la tua strada sia spianata e diritta; ci saranno anche fatiche e ostacoli e curve… ma ti auguro di avere sempre la giusta scorta di fantasia, di saggezza e di fiducia; così non dovrai temere, e la tua presenza sarà un bel contributo a un mondo più umano.
Sono certo che un giorno ti spiegheranno il dono del tuo nome; ti racconteranno desideri, speranze e impegni presi per camminare sulle strade d’amore di chi l’ha avuto prima di te.
Era, anche lui, Federico. Un uomo di tempi lontani, un uomo che decise di entrare nella milizia di Dio e fu fedele ad essa, in vita e in morte. Un uomo che scelse di essere padre in un modo diverso da tuo padre, da tuo nonno, e da altri genitori terreni; aprì braccia e cuore a chi gli venne affidato e lavorò per sviluppare e guarire le anime dei propri “figli”, senza dimenticarsi dei loro corpi e dei loro affetti, strumenti indispensabili per completare il nostro percorso e approdare alla felicità completa, di fronte a Colui che ci ha pensati, voluti e amati, e che chiamiamo Dio.
Nessuno sa che cosa ha in mente per te, e forse è un bene: ognuno sarebbe tentato di suggerirgli e suggerirti cosa fare del tempo che ti sarà concesso. Vorrei però che considerassi sempre che Lui – pur rispettando la libertà degli uomini – non ti abbandonerà, né smetterà per un solo istante di desiderare il tuo bene e di darti tutto il necessario per realizzarlo.
Forse ti potrà capitare di perdere la bussola, o sarai sommerso dai dubbi, fino a non vedere più il futuro davanti a te; sappi che è una menzogna, perché il futuro c’è, anche per te, pure quando non sarà più nelle tue mani.
Federico Albert non realizzò tutto ciò che aveva in mente per il bene dei suoi amici, e certamente ne soffrì. Ma poi, quel 30 settembre di tanti anni fa, si lasciò andare. E, miracolo della Fede, i piani di Dio per i suoi “figli” non si fermarono, anzi diventarono più rigogliosi e diffusi.
Se un giorno considererai l’eredità dell’uomo di cui porti il nome, sappi – uomo del 2014 – che non ti chiederà nulla che non sia per la tua gioia; ma sussurrerà sempre di incontrare la Fede, quella ricchezza che ricorda il tuo nome e che ti farà volare… come un’aquila, fin sulle Vette che qualcuno scala per essere più vicino alla luce del Sole, o, se vuoi, di Dio.
Che la Luce illumini sempre le tue strade e il Calore accompagni il tuo respiro.
Ciao, Federico.

La terapia dei colori

«La prima volta che ho fatto la terapia dei colori, il ginocchio mi faceva parecchio male. Ho dovuto sospenderla, ma poi i dolori sono diminuiti e anche la cervicale faceva meno male. Quando arrivava la terapista provavo un grande sollievo».
È la testimonianza di Maria, residente della Casa anziani Malcantonese in Svizzera, dove è stato fatto uno studio clinico sul dolore usando la cromopuntura. Stupefacenti i risultati del test autorizzato dal Dipartimento della sanità del Canton Ticino: dopo la prima seduta, il dolore cala del 30%, per poi svanire quasi del tutto.
Dimezzati i consumi di analgesici, oppioidi deboli e morfina. Anche i medici della casa anziani non si aspettavano un risultato simile: dolori azzerati per undici pazienti su dodici e pastiglie dimezzate.
È il primo studio che indaga gli effetti della cromopuntura sul dolore per un anno (da febbraio 2012 a marzo 2013) con valutazioni oggettive: la percezione del dolore nei pazienti veniva misurata prima e dopo ogni seduta da personale infermieristico indipendente. Sembra tutto molto semplice: irradiando con luce colorata la pelle lungo i meridiani dell’agopuntura e altri punti riflessologici, il male cala.
Perché accada, ce lo spiega un esperto: «La luce è il linguaggio tra le cellule. I colori danno un’informazione al corpo correggendo un disturbo di questo linguaggio», dice Fausto Pagnamenta. L’ex primario di pediatria all’ospedale La Carità di Locarno, esperto di cromopuntura (ha scritto libri e tiene corsi), è il direttore di questo studio clinico: «Abbiamo usato una luce infrarossa che ha la stessa vibrazione del nucleo delle cellule. L’onda dà al corpo un’informazione: sciogliere blocchi energetici. E le cellule ritornano a parlarsi».
Gli chiediamo che cosa sono questi blocchi: «Sono emozioni trattenute per anni. Sono i mattoni che costruiscono la malattia, i fattori scatenanti, spesso dimenticati. Sbloccando questa emotività con la luce, si riduce lo stress nel corpo e di conseguenza il sistema immunitario si rinforza», precisa.
Tutti i pazienti hanno ricevuto una diagnosi, poi una seduta di circa 30 minuti una volta a settimana. Sempre collaborando con i medici, perché la cromopuntura è complementare alla medicina tradizionale. Mentre il corpo medico della struttura è stupito dai risultati, Pagnamenta lo è meno: «Da 25 anni curo emicranie, insonnia, mal di schiena con la luce colorata. Irradiando punti particolari si risolve un dolore anche in poche sedute. Mentre per gravi malattie degenerative si può rinforzare il sistema immunitario. In questo studio, era importante avere una valutazione indipendente dal terapista».
Anche il direttore della casa anziani è soddisfatto dei risultati ottenuti: «Riuscire ad abbattere la percezione del dolore e dimezzare l’assunzione di antidolorifici, anche di morfina, è un ottimo risultato», dice Roberto Perucchi. Poi c’è anche un aspetto economico, si risparmia sui farmaci. «È un terreno da esplorare meglio. Si rifarà la sperimentazione in un’altra struttura per raccogliere ulteriori dati». (Simonetta Caratti, La Stampa 20/9)

Cambia il mondo cambiando me

Signore,
quando desidero un mondo migliore,
fatto di pace e di serenità,
di gioia e di bellezza,
non cambiare gli altri,
aiutami a cambiare me.

Signore,
quando vedo le difficoltà della gente
che si rovina la vita con le sue mani,
quando tutti contestano, si lamentano,
inveiscono contro i responsabili,
non cambiare gli altri,
aiutami a cambiare me.

Signore,
quando mi scandalizzo perché non c’è più religione,
etica e giustizia,
quando mi sento solo dietro ai tuoi passi,
e vorrei che tanti seguissero questo sentiero,
non cambiare gli altri,
aiutami a cambiare me.

Signore,
quando mi sento rifiutato,
contestato, offeso, ingannato,
non cambiare gli altri,
aiutami a cambiare me.

Signore,
quando vedo la pagliuzza nel volto del vicino
e non vedo la trave nel mio,
è ora che decida una volta per tutte
di cambiare soltanto me.

Pentirsi per credere

Il peccato più grave che compiamo, probabilmente, è quello che non vediamo. Ci sembra così normale o buono, che non lo riconosciamo. È grave, perché se non cambiamo occhiali, non riusciremo mai a convertirci. Continueremo a essere invischiati da questo limite. Faremo subire agli altri questo difetto, senza renderci conto che è tale.
Gesù prova in tutti i modi a infrangere questa barriera che tocca tutti, anche i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo, quindi coloro che dovrebbero essere pieni di esperienza e di saggezza. Li stimola con l’esempio dei due figli, che indipendentemente dalla propria presa di posizione, riflettono e la cambiano, chi nel bene, chi nel male. Li scuote con il paradosso dei pubblicani e delle prostitute, due categorie di peccatori conclamate e odiate: i primi perché rubavano i loro soldi, le seconde perché attentavano alla loro fedeltà. Eppure tutti conosciamo le conversioni di Matteo o Zaccheo, o, secondo la tradizione, quella di Maria Maddalena. Poi Gesù li inchioda al loro atteggiamento di disagio di fronte a Giovanni, un profeta della giustizia, decisamente in linea con la fedeltà alla Legge che loro propugnavano.
Questi presunti “grandi” del popolo eletto hanno visto la salvezza senza riconoscerla, hanno avuto di fronte le loro mancanze senza comprenderle, sono stati redarguiti senza accorgersi che Gesù parlava proprio di loro. Per questo, in settimana, avremo il coraggio di chiedere a qualcuno di indicarci i nostri atteggiamenti sbagliati, per cambiarli? “Se non hai un amico che ti corregga, paga un nemico perché ti renda questo servizio” (Pitagora). Solo così potremo crescere, camminando “in avanti” nel regno di Dio.

La nuova vita dei pneumatici rifiutati

In diverse regioni del Libano bruciare gli pneumatici è ormai parte integrante della cultura locale. Gesto di rabbia e di protesta durante le manifestazioni e gli scioperi, è anche considerato l’unica soluzione possibile per eliminare le grandi quantità di gomme usate che ingombrano il territorio. Incenerire i copertoni costituisce però un crimine dal punto di vista ambientale, a causa del CO2 immesso nell’atmosfera al momento della combustione.
Alcuni comuni libanesi scelgono allora di abbandonarli tra le montagne di rifiuti delle discariche, incuranti del fatto che i componenti della gomma siano tra i più resistenti agli agenti esterni e che il tempo di decomposizione di uno pneumatico sia nell’ordine delle centinaia di anni. Il Libano non è l’unico Paese a vivere questo problema. La questione è globale e particolarmente acuta nei Paesi in via di sviluppo, dove lo smaltimento sicuro delle gomme usate è una pratica assai poco diffusa.
Ma nella cittadina libanese di Toula, nel Sud del Libano, è nato un progetto che lascia sperare. Si chiama Al-Oula ed è un impianto di riciclaggio di pneumatici usati fondato e gestito da tre giovani imprenditori pieni di creatività e senso di responsabilità ambientale: Ali Issa, Oula Issa e Ahmad Shamseddine.
Al-Oula è nato nel 2011, quando i tre imprenditori hanno deciso di applicare agli pneumatici il know-how familiare nella trasformazione della gomma in articoli di vario genere rivenduti poi ai negozi locali, trovando così una soluzione di smaltimento alternativa all’accumulo e alla combustione: gli pneumatici vengono triturati e trasformati in polvere, quindi in pannelli per la pavimentazione di viali, aree gioco, palestre e scuole materne. Dopo un primo anno di rodaggio, in cui la start-up si è avvalsa dei fondi del programma Kafalat per importare i macchinari necessari al riciclaggio e finanziare il proprio progetto, Al-Oula opera ormai con successo senza alcuna sovvenzione statale.
L’impianto risponde a due esigenze essenziali in Libano: libera gommisti e comuni dall’ingombro degli pneumatici danneggiati e fornisce pavimentazioni antitrauma a diverse strutture, riducendo il fabbisogno di importazione di questi materiali dalla Cina. E non è tutto. Grazie a un livello di qualità e di prezzo che la rende concorrenziale rispetto ai produttori cinesi, l’azienda ha iniziato a esportare i propri pannelli nei Paesi limitrofi, principalmente in Giordania.
Ali Issa ci ha spiegato che il progetto è nato dal desiderio di risolvere il problema della combustione degli pneumatici ed eliminare le sue ripercussioni ambientali. Al-Oula è un’azienda unica nel suo genere in Libano e nei Paesi circostanti. Prima di lanciare il progetto, i tre soci hanno studiato la domanda di pannelli antitrauma con garanzia a dieci anni, scoprendo che questo tipo di pavimentazione veniva importata a prezzi molto più alti rispetto a quelli che Al-Oula riesce ad offrire oggi ai suoi clienti.
Una volta acquisite le macchine trituratrici, gli imprenditori hanno contattato vari comuni, tra cui quello di Saida, nei pressi di Toula, per assicurare all’impianto l’approvvigionamento di pneumatici usati. Oggi Al-Oula è in grado di triturare 200 pneumatici in cinque ore.
La polvere di gomma viene venduta all’ingrosso senza essere processata oppure impiegata per la realizzazione di pannelli compressi di varie forme e dimensioni, usati per la pavimentazione di superfici di diverso genere. Gli ordini provenienti da numerose regioni del Libano, nonché dai Paesi limitrofi, dimostrano un interesse elevato nei confronti di questi pannelli ecologici, resistenti ad agenti atmosferici quali il calore e la pioggia e sicuri per chi vi cammina, dunque particolarmente adatti alla pavimentazione di ambienti destinati ai bambini.
Ali Issa ha accennato alla riduzione del numero di pneumatici provenienti dai comuni, in particolare da Saida. Una situazione problematica per l’azienda, ma positiva per l’ambiente, poiché conferma che il problema degli pneumatici in esubero dispone effettivamente di una soluzione a lungo termine. Per far fronte alla penuria di gomma ed evitare la dipendenza da una fonte di approvvigionamento affievolita, l’imprenditore ha avuto l’idea di raccogliere pneumatici in altre regioni del Paese, ottenendo così il duplice vantaggio di espandere il business di Al-Oula e ridurre l’onere dello smaltimento delle gomme. Appositi veicoli aziendali percorrono ora il Paese e riversano nell’impianto di Toula grandi quantità di pneumatici pronti ad essere polverizzati e reimpiegati.
L’impianto di Al-Oula è ormai pienamente autonomo e cresce grazie all’impegno dei suoi soci e all’aiuto di dipendenti locali che hanno trovato nelle gomme una nuova fonte di sostentamento e una via d’uscita al problema della disoccupazione e della migrazione verso la capitale. Malgrado il suo impegno a vari livelli, l’azienda non beneficia tuttavia di alcun sostegno pubblico, fatto salvo l’appoggio morale, che non si rivela però concretamente utile per trasformare il sito in una fabbrica-modello.
Gli ideatori del progetto non si lasciano scoraggiare e promettono ulteriori sviluppi per Al-Oula. In proposito, Issa ha parlato di investimenti in corso per la realizzazione di un macchinario in grado di produrre pannelli di grandi dimensioni, che verrebbe ad affiancare l’attuale dotazione di macchinari per pannelli di taglia piccola e media. Produrne di più grandi permetterebbe all’azienda di operare su progetti di maggiori dimensioni e fornire pavimenti antitrauma per la copertura di superfici più ampie. Durante la nostra visita all’impianto, abbiamo constatato che i lavori per la costruzione del macchinario erano già in corso, a riprova della capacità della nuova generazione libanese di fare la differenza anche con disponibilità finanziarie limitate.
Gli imprenditori stanno lavorando a una nuova idea: riutilizzare i rivestimenti in lino presenti all’interno degli pneumatici, attualmente accantonati prima della triturazione. I tre soci non intendono infatti gettar via la grande quantità di lino accumulatasi sul sito durante tutto il periodo di attività e stanno elaborando un nuovo sistema di riciclaggio per trasformare il tessuto in pannelli destinati alla decorazione. Il progetto è ancora in fase di studio, ma si fonda sull’assunto – ormai appurato – che ogni componente può essere riciclato senza danni per l’ambiente. (veronique abou ghazaleh, La Stampa 20/9)

Un uomo, biblioteca mobile in Bangla Desh

67 Sarkar Photo 1 (Polan Sarkar, left, giving book to the rural housewife, Credit_ Shahadat Parvez) -U10303096924170uH-U10303064990883rqF-416x355@LaStampa-NAZIONALE-k5h-U10303064990883rqF-640x320@LaStampa.itQuando la gente del villaggio si sveglia il mattino, la prima persona che vede è Polan Sarkar. È in piedi, sorridente, con una borsa piena di libri sulla spalla. Nonostante i 94 anni, è pieno di vita come un ragazzo. Percorre parecchie miglia a piedi, spostandosi da un villaggio all’altro con i suoi libri. Acquista i volumi e li dà in prestito alla gente. Dopo alcune settimane, ripassa; gli abitanti restituiscono i libri e ne scelgono altri fra quelli nuovi che egli porta con sé.
Sono ormai 30 anni che Sarkar rifornisce di parole e cultura una ventina di paeselli del Rajshahi, destando nella regione un nuovo interesse per la lettura. Per quelle regioni rurali del Bangladesh, dove la maggior parte degli abitanti è povera e analfabeta, il lavoro di Polan Sarkar rappresenta una rivoluzione.
Rimasto orfano di padre a soli cinque mesi, Polan frequenta la scuola fino alla seconda classe, quando la povertà gli toglie definitivamente la possibilità di proseguire gli studi. Non perde però l’abitudine di leggere. I libri li chiede in prestito qua e là. Da giovane, Polan entra a far parte del jatra, un teatro popolare locale, dove riveste il ruolo di un clown. A quei tempi vi erano pochissimi artisti jatra in grado di leggere e scrivere e non c’erano fotocopiatrici. Così i copioni si dovevano riprodurre a mano e a occuparsene doveva essere Polan, che sedeva di lato sul palcoscenico per suggerire le battute agli attori.
Cresciuto nella casa di un suo zio materno, dove riscuote le tasse dai contadini, lavora in seguito come esattore fiscale del Comune. Con il denaro che guadagna acquista libri; non si limita a leggerli, ma li dà in prestito ad altri. Sulla terra di sua proprietà fonda una scuola superiore: presta agli studenti libri da leggere e premia quelli meritevoli con altri tomi, gettando così i semi di un rivoluzionario interesse per la lettura.
Quando gli diagnosticano un diabete, gli consigliano anche di fare regolari passeggiate. Ecco l’idea: «La gente viene a casa mia per prendere in prestito libri. Potrei invece andare io da loro per consegnarli», si dice Polan.
«Quello fu l’inizio – racconta oggi –. Distribuire i libri spostandomi a piedi è diventata quasi un’ossessione». Polan inizia così a recarsi di casa in casa con il suo prezioso carico. La voce delle sue visite si sparge e tutti, compresi studenti e casalinghe, cominciano a rivolgersi a lui per chiedergli nuovi volumi. Lui diventa in breve tempo una sorta di biblioteca mobile, e casa sua si trasforma nella libreria del villaggio.
Polan ama portare alla gente i classici della letteratura bengalese e prestare libri di racconti popolari e narrativa di altri autori conosciuti. È grazie a lui che Abdur Rahim, ora cinquantacinquenne, è diventato un avido lettore. Rahim possiede un negozio di generi alimentari a Digha Bazar. Non solo legge, ma ogni pomeriggio tiene una sessione di lettura presso il suo negozio.
Il movimento di Polan Sarkar era limitato a pochi villaggi del Rajshahi: nessuno, al di fuori di questa zona remota, ne sapeva nulla. Fino al 27 febbraio 2007, quando il quotidiano «Prothom Alo» pubblica un primo articolo su di lui.
Ancora oggi, a 94 anni, si sposta a piedi con i suoi libri. È un uomo dotato di senso dell’umorismo e innamorato della vita, divenuto fonte di ispirazione per molte persone intorno a lui. Il suo entusiasmo per i libri ha superato i confini del suo villaggio e molti altri hanno seguito il suo esempio, creando biblioteche e distribuendo libri di paese in paese in molte zone del Bangladesh.
Nel buio dell’analfabetismo che avvolge le zone rurali del Paese, Sarkar è un luminoso faro di speranza. (abul kalam e muhammad azad, La Stampa 20/9)

Informatici senza frontiere

“Dopo la coinvolgente esperienza di “Medici senza frontiere”, di “Reporter senza frontiere” ecco che anche gli informatici rispondono all’appello del reale – e che non si dica che gli informatici vivono solo nel virtuale – e si attivano per mettere capacità e competenza la servizio di chi richiede aiuto in diverse parti del mondo.
L’iniziativa nasce da un appello proveniente da di Angal in Uganda, in cui l’ospedale St. Luke, che sta africanizzando” tutto il personale della struttura, ha chiesto aiuto all’Istituto tecnico di San Donà di Piave per l’informatizzazione dell’ospedale e la gestione delle cartelle cliniche.
Un appello simile giunge dall’Afganistan, sempre per l’informatizzazione ospedaliera, e ne arriva uno anche dal centro servizi per il volontariato di Treviso che ha bisogno di strutturarsi meglioinformaticamente per rendersi più visibile e per mettere al servizio di utenti e iniziative tutto il materiale disponibile.
Nella seconda metà del 2005, un gruppo di responsabili di sistemi operativi aziendali decide di dare via al progetto di una Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale, al fine di mettere a disposizione le proprie competenze e professionalità in favore di soggetti, comunità e popolazioni svantaggiate. L’idea, trova subito largo consenso, e nasce l’associazione di volontariato per la formazione e lo sviluppo di progetti informatici. Attraverso la formazione Informatici Senza Frontiere vuole trasferire la conoscenza tecnica alle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, sia sull’information tecnology in generale sia sui progetti realizzati.
“La comunità internazionale si mobilito per garantire anche ai paesi poveri un pieno accesso alle nuove tecnologia. L’obiettivo è di connettere tutti i villaggi del mondo a Internet. Solo così avremo al democrazia digitale”. Queste sono state le parole di Kofi Annan, segretario generale dell’Onu, al vertice mondiale sulla società dell’informazione a Tunisi il 16 novembre 2005. Un messaggio colto tempestivamente e ora già attivo sul territorio.
“Siamo convinti – afferma il presidente dell’Associazione Girolamo Botter, direttore sistemi informativi GRUPPO-SME – che l’accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione rappresenti un prerequisito per lo sviluppo economico e sociale e che l’information technology debba ormai affiancare le infrastrutture primarie come l’acqua e l’elettricità. D’altra parte nei paesi occidentali si fa un grande spreco di tecnologia in termini di hardware ritenuto obsoleto e know how inutilizzato. Attraverso Informatici senza frontiere vogliamo contribuire a colmare questo divario mettendo a disposizione la nostra professionalità e le nostre relazioni, frutto del pluriennale impegno nella gestione dei sistemi informativi aziendali.”
Lo sviluppo di progetti informatici prende spunto dall’individuazione di esigenze concrete. Per soddisfarle Informatici Senza Frontiere raccoglie le risorse finanziarie hardware e software in modo da realizzare soluzioni complete. L’obbiettivo è che i destinatari dei progetti si impadroniscano degli stessi, partecipando all’installazione e apprendendo come gestirli e manutenzionarli.
Come primo risultato di questa neo-nata associazione, è stato consegnato nei giorni scorsi al dottor Mario Marsiaj (dell’Associazione “Amici di Angal”) il primo prototipo del software sviluppato da Informatici Senza Frontiere per l’Ospedale di Angal. Il dottor Marsiaj, in questi giorni in partenza per l’Uganda, porterà con sé un PC portatile in cui è stato installato questo software studiato appositamente per la gestione dei pazienti dell’Ospedale di Angal. Dai medici e dal personale amministrativo dell’Ospedale, che visionerà il programma, risulterà un efficace feed-back sulla funzionalità del software ed eventuali preziosi suggerimenti per farne uno strumento indispensabile per l’ottimizzazione delle risorse umane e strumentali, la gestione delle cartelle cliniche dei pazienti e delle scorte di medicinali. La missione completa del progetto prevede – entro il prossimo autunno – l’installazione presso la struttura ospedaliera ugandese di 8 personal computer collegati a un server.
Altre iniziative sono già in fase di realizzazione, una a Venezia, presso l’istituzione Comunale Casa dell’ospitalità, che offre ricovero a chi non ha casa, e l’altra presso il carcere di S.Bona, a Treviso, per favorire la crescita culturale e civile dei detenuti. Informatici senza frontiere sta iniziando un rapporto di collaborazione per organizzare attività formative di carattere informatico e fornire assistenza di tipo sistemistico e hardware presso il laboratorio didattico del carcere.
Buona fortuna a Informatici Senza Frontiere, che ha esordito con un piccolo stand allo SMAU di quest’anno a Milano, rappresentando sicuramente una delle novità più interessanti della fiera!”. (Marcella Danon, dal sito lifegate.com; riferimento all’articolo “Così cambiamo il Pianeta un computer alla volta” su La Stampa e altre 40 testate mondiali del 20/9)

La buona sanità

“Scoprire, in una giornata serena di primavera piena di promesse, di avere un tumore al seno. E avere 30 anni e bimbi piccoli che ci aspettano a casa, o 40 e un lavoro che vogliamo conservare a qualunque costo, o 50, 60 anni e mille cose da fare e da vivere ancora. Sentirsi dire che ci aspetta un percorso lungo più di una gravidanza e fatto di terapie pesanti di cui basta il nome a far tremare il cuore. Passare per la prima volta la porta sulla quale sta scritto un nome che ci sembra una condanna ingiusta, «Day Hospital oncologico».
Un incubo.
Eppure, passata quella porta, se si è dentro a un ospedale come quello in cui ho avuto la fortuna di curarmi, non si trovano fiamme e forconi, ma umanità, sorrisi, comprensione e tanta serena professionalità. Medici e infermiere non sembrano piegati da turni pesanti, da impegni stressanti, da responsabilità logoranti. Il tuo caso è da subito il «loro» caso. E la chemioterapia cessa di essere qualche cosa di misterioso e spaventoso, diventa una terapia come un’altra, più efficace di un’altra. Accanto a te aleggiano attenti degli angeli competenti che ti fanno sentire al sicuro, che si ricordano chi sei, quali problemi personali hai, che ti chiamano con il tuo nome, ma ti danno rispettosamente del «lei» e non diventi la figliola o la nonnina di nessuno.
Si chiamano Ludmilla, Viviana o Giampiero e tanti altri nomi ancora. Sono lì per te, sono lì con te e nessuna di noi si sente sola. Le «volontarie» sono pronte con il loro tè o il cuscino per rendere più comoda la poltrona sulla quale non ti spaventa più ritornare.
Dopo sei mesi di chemioterapia quelle persone sono il tuo riferimento più costante e se anche ti è toccato di attraversare l’esperienza con il carico aggiuntivo di una tragedia familiare, come è accaduto a me, è il loro volto comprensivo e attento che ricorderai con riconoscenza e certo anche la discrezione con cui il loro lavoro si è integrato con quello della brava psicoterapeuta che ti ha ascoltata e aiutata e che ti è stata messa immediatamente accanto dal «tuo» dottore quando hai ammesso che forse non ce l’avresti fatta da sola.
La buona sanità esiste e, come recita un cartello in una delle sale per la chemioterapia, le favole dicono la verità perché insegnano che i draghi si possono affrontare e magari sconfiggere. Sono dall’aprile scorso paziente esterna dell’Day Hospital di un ospedale che funziona, a Torino”. (Emanuela A., Torino, La Stampa 23/9)

Contaminatore di poesia

poesia<<Il mio obiettivo è portare la poesia nei posti più impensabili, per farle ritrovare la sua aura e offrire a tutti l’opportunità di godere dell’energia che porta con sé: sono azioni culturali ma anche terapeutiche». Si firma «Ma Rea», acronimo che nasconde elementi della sua personalità, ma non vuole ancora svelare la vera identità questo studente lavoratore di Ferrara tra i 30 e i 40 anni, che da alcuni mesi ha iniziato a contaminare con versi originali le vie e i luoghi pubblici delle città. L’ultimo blitz a Vicenza, dopo aver lasciato segni del suo passaggio a Padova, Bologna, Treviso, Rimini, Venezia. E ora è in attesa di partire per Ravenna prima e Mantova poi. Cestini dei rifiuti trasformati in bacheche su cui attaccare poesie, incursioni letterarie in edicole e biblioteche per infilare di nascosto il frutto della sua ispirazione tra le pagine di libri e quotidiani, fogli plastificati stesi come bucato su cui far leggere le sue opere più intime per emanare una sensazione di pulizia e ritrovato vigore.
«Faccio una campagna al mese: aspetto che mi arrivi l’intuizione e mi metto all’opera senza programmare nulla. Sono un poeta errante, che cerca luoghi insoliti, all’aperto e al chiuso, per far circolare il pensiero e le emozioni. Sono diventato adulto con solo la terza media in tasca, e mi sono rimesso a studiare molto tardi: oltre al diploma ho così trovato il piacere e ho scoperto la forza dirompente della scrittura e dell’espressione artistica». Tra le azioni più bizzarre c’è «Igienica mente»: brevi poesie adesive attaccate su rotoli di carta igienica disseminati nei bagni pubblici. «Propongo alle persone di strappare alcuni di quei veli, per ripulirsi da brutture e meschinità della nostra società. Creando sorpresa e coinvolgimento. Io in tutto questo non ci guadagno 1 euro, però ho la possibilità di mettermi in gioco e di scoprire parti di me inesplorate e sconosciute. Divertendomi tantissimo». (Federico Taddia, La stampa 14/9)

Lavoratori per la tua vigna

Sono stato operaio nella tua vigna, Signore.
Mi hai chiamato la prima volta tanto tempo fa,
quando ancora ero bambino e non sapevo cosa significasse.
Ero timido ed insicuro,
mi hai promesso gioia e realizzazione ed io mi sono fidato.
C’erano altri bravi operai attorno a me:
lavoravano con lena e generosità
ed era un piacere collaborare con loro.
Erano sempre pronti ad aiutarmi e ad accogliere gli ultimi arrivati.
Perché intanto tu continuavi a chiamare e qualcuno giungeva più tardi.

Ma il tempo e la vita ci portano in campi nuovi,
dove il terreno è più arduo da dissodare
e gli operai sono meno convinti.
E la tua paga tardava ad arrivare.
Non avevamo pattuito la gioia?
Perché la vita sembra così infelice?
Il solleone picchiava più forte
e la tua presenza fedele sembrava un miraggio.
Ho rimpianto di essere arrivato così presto
e mi sono fermato, sulla terra nuda, ad invocarti accorato.
Ma tu tacevi, lontano, impegnato a raccogliere nuovi operai.
Soltanto il Vento scuoteva i tralci,
mentre i grappoli verdi suggerivano la pazienza.

Poi è giunto il tuo fattore e ha consegnato a tutti la loro paga.
Non c’era nulla di speciale, nulla di più della Vita.
E qualcuno, come me, si è lamentato.
La mia dedizione non avrebbe dovuto meritare di più?
Perché i “poco di buono” avevano avuto la stessa moneta?

Perché ad ognuno era stato dato tutto il necessario.
Anche se io ed altri non eravamo in grado di vederlo.
Era stato fornito per pura bontà, sulla fiducia.
E per chi era stato fedele il premio
era l’orgoglio per la della lealtà al proprio padrone,
la gioia di aver prodotto un vino buono,
la consolazione di aver riempito il tempo con un po’ più d’Amore,
lo stesso rosso rubicondo
di cui eri fatto Tu.